Luigi Francesco Clemente, Jacques Lacan e il buco del sapere

Nel corso degli anni Sessanta si consuma in Francia un aspro confronto tra Jacques Lacan e Paul Ricœur sul significato della rivoluzione freudiana rispetto alla tradizione filosofica: continuità o discontinuità? Rinnovamento o rottura? Una discussione che non rappresenta un capitolo secondario dell’insegnamento lacaniano. Sebbene oscurata da costanti quanto fuorvianti pseudo-dibattiti sulla (presunta) filosofia di Lacan, si tratta probabilmente dell’unica circostanza che abbia visto lo psicoanalista parigino direttamente impegnato in un faccia a faccia con un filosofo della propria epoca.

Jacques Lacan e il buco del sapere ne chiarisce le ragioni di fondo, ricostruendone la genesi, gli sviluppi e le conseguenze di lungo periodo, fino a cogliervi il nucleo proprio dell’antifilosofia lacaniana: la denuncia della tentazione, condivisa da analisti e filosofi, di trasformare la pratica analitica in pratica ermeneutica. Quelle che emergono sono questioni decisive riguardanti il complesso rapporto tra psicoanalisi e filosofia, la loro stessa tenuta nello scacchiere ideologico contemporaneo, segnato dal trionfo della religione e dalla disastrosa convergenza di terapie brevi e ricerca di saggezza.

La nostra scienza e il ritorno dell’oscurantismo

Quand’è che Lacan inizia a smarcarsi esplicitamente dalla filosofia? È in qualche modo lui stesso a dirlo, all’epoca della pubblicazione degli Scritti. In un’intervista del 29 dicembre 1966, rilasciata a «Le Figaro Littéraire», Lacan ricostruisce le tappe principali del suo insegnamento, prima al Sant’Anna poi, dal 1964, alla Normale. Cosa è accaduto passando da un uditorio di medici a uno molto più vasto, composto in buona parte da filosofi? L’intervistatore, Gilles Lapogue, si domanda, infatti, se un pubblico nuovo non richieda una nuova lettura. Ed ecco cosa risponde Lacan:

Non ho mai fatto nulla per conquistare altro pubblico che non fosse quello della filosofia. FALSO.

E più avanti:

Ecco cosa è accaduto: da qui e da là, veniva della gente al Sant’Anna, poi se ne andava e riversava ciò che aveva appreso un po’ dappertutto, fino agli Stati Uniti. Vi confesso che questo sfruttamento, io lo ignoravo, lo ignoravo realmente. C’è voluta l’esplosione di una crisi, qualche anno fa, e che io trasferissi il mio insegnamento dal Sant’Anna all’École Normale perché mi rendessi conto che in giro si sapeva ciò che insegnavo. Posso dunque dire che questa virata, compiuta dal mio insegnamento, non ha nulla a che fare con una virata molto più larga. Sia chiaro: questo sfruttamento non mi ha infastidito personalmente, ma presentava dei gravi pericoli. Potevano seguire delle interpretazioni aberranti. La parola “significante”, per esempio, che oggi si trova sotto tutte le penne, se ne può fare un uso improprio. Ho quindi voluto – e è la ragione di questo libro [Scritti] – porre dei paletti di ciò che, nel mio insegnamento, può essere necessario. Mi batto da diversi anni per impedire che si alteri il senso di Freud. Ed ecco che devo prendere le stesse precauzioni per me stesso. Diciamo che erigo delle barriere contro i commentari abusivi. Un esempio: il mio lavoro non ha nulla a che vedere, veramente nulla, con quel vero e proprio stravolgimento che alcuni ne hanno operato ai fini di un’“ermeneutica” religiosa.

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