Vulnerabilità
Tommaso Tuppini, Università di Verona

“Vulnerabile” viene dal latino dal latino vulnerabilis, vulnerare, cioè “ferire”. Questo significato collega l’esperienza della vulnerabilità a un possibile danno. Nella cultura occidentale una prima, esplicita comprensione della vulnerabilità è illustrata nella storia dell’eroe greco Achille. La “vulnerabilità” è quasi un sinonimo del “tallone d’Achille” che indica l’unico luogo anatomico in cui l’eroe rimane esposto alle ferite.

All’esperienza della vulnerabilità si associano necessariamente le idee antitetiche di sicurezza e di protezione. Le preoccupazioni per la dipendenza di ogni uomo dagli altri uomini e dal mondo sono pervasive già nella teoria politica dell’antichità e le ritroviamo pressoché invariate – ad esempio – nei lavori novecenteschi di Hans Jonas, nella ricerca sociologica di Ulrich Beck sul rischio, nella prospettiva antropologica di Mary Douglas (2003). Le esperienze legate all’incertezza, alla fortuna e all’imprevisto – potenzialmente pericolosi – sono oggetto di costante meditazione nel pensiero contemporaneo soprattutto in quegli psicologi come Freud per i quali il nostro Io non è che un campo di battaglia tra istanze antitetiche i cui desideri e spinte sono difficili da comporre e conciliare. La vulnerabilità può essere analizzata anche attraverso le ricerche dell’antropologia evolutiva che testimoniano l’ubiquità nonché la centralità dei rituali che si istituiscono intorno alla nascita, la morte, il sesso e l’alimentazione, tutte esperienze che in un modo o nell’altro mettono in luce diversi aspetti della vulnerabilità. L’interconnessione tra dipendenza e vulnerabilità è presente in tutti i modelli premoderni dell’esperienza – soprattutto nelle civiltà agricole –, nei riti il cui scopo principale è ingraziarsi una natura capricciosa o un dio capaci di assicurare l’abbondanza del raccolto e la protezione dai pericoli.

Forse ogni forma di sociazione trova la propria giustificazione nell’esperienza della vulnerabilità propria e altrui. Là dove ci sono norme che regolamentano la vita in comune e la condivisione di uno spazio, esse s’inscrivono dentro la percezione diffusa di un’offesa sempre possibile. Da Platone – per il quale la polis deve poter garantire l’incolumità dei filosofi – a Marx – per il quale la questione all’ordine del giorno è l’aggirarsi per l’Europa di uno spettro capace di annientare la borghesia – la messa in sicuro dalla distruzione sembra la questione sociale e politica fondamentale. La sicurezza e la protezione che l’autorità deve poter garantire a una comunità vengono sempre pagate con una restrizione delle libertà individuali e una diminuzione della capacità d’azione dei suoi membri. Questa conseguenza è evidente nel maggior teorico moderno della politica, Thomas Hobbes, per il quale la debolezza umana e l’esposizione al pericolo possono essere rintuzzate soltanto dalla sottomissione a un’autorità che protegge incutendo timore. La condivisione di uno spazio comune è possibile solo là dove gli uomini sono stati immunizzati contro la reciproca vulnerabilità. In effetti, per il pensiero moderno non esiste un soggetto politico vulnerabile. Un uomo è vulnerabile fin dalla nascita ma appena mette piede dentro la città o appartiene a una compagine statale, per ciò stesso dismette la propria vulnerabilità, si mette al riparo da ogni aggressione da parte dei suoi simili. D’altra parte, l’autorità politica protegge i cittadini dalle offese soltanto infliggendo loro un altro tipo di offesa, perché li costringe a vivere nella paura: non più la paura reciproca, quella di un uomo nei confronti di un altro uomo, ma la paura nei confronti dell’autorità che si fa carico della loro protezione. La capacità di proteggere e di togliere di mezzo qualsiasi conflitto tra i sudditi o i cittadini, è direttamente proporzionale alla capacità di incutere timore. Nei confronti di chi si mette sotto la sua protezione, il governo civile – dice Hobbes – deve possedere un potere sufficient to overawe them all, un potere capace di impaurirli tutti ed è soltanto in questo modo che può rendere gli uomini inoffensivi. Lo Stato-Leviatano, il paradigma della sovranità moderna, scioglie il legame orizzontale tra gli uomini e ne istituisce uno verticale, con il sovrano, in nome dell’immunità di tutti e di ciascuno nei confronti delle offese (Hobbes, 1991). Un paradigma socio-politico differente è rappresentato da Machiavelli per il quale l’agente della vulnerabilità umana e istituzionale prende il nome di “fortuna”. La fortuna è la contingenza e la sorpresa – spesso deludente – che segue come un’ombra gli affari umani e nei confronti della quale è impensabile guadagnare una immunità completa. Se è vero che gli uomini rimangono esposti a un pericolo mortale fino a quando non si producono forme politiche stabili, Machiavelli s’interroga anche sulla vulnerabilità delle istituzioni chiamate a proteggere la vita dei cittadini. Il progetto di eliminare ogni accidente e incidente dalla vita sociale ha spesso conseguenze catastrofiche perché irrigidisce le strutture politiche, finendo per renderle più fragili e meno capaci di assorbire gli urti ai quali si espongono. Contrariamente alla tradizione inaugurata da Hobbes, Machiavelli scorge la debolezza delle istituzioni nell’incapacità di includere qualsiasi forma di conflitto. Per Hobbes l’autorità politica può essere efficace soltanto se il potere di governo è nelle mani di una entità monolitica (re o assemblea). Per Machiavelli, invece, il potere non deve cristallizzare in un unico luogo o un’unica persona. Anzi, non c’è nulla di più nocivo. Per essere stabile, uno Stato deve riprodurre su una scala più piccola i conflitti presenti nel tessuto sociale, riuscendo in questo modo a farli cristallizzare dentro forme di governo tendenzialmente repubblicane. In questa prospettiva, le differenze e le contraddizioni della società civile non devono essere cancellate o ignorate, ma trovano espressione in un equilibrio istituzionale che è il prodotto di quelle tensioni (Machiavelli, 1984).

Una prospettiva radicale ed eccentrica sulla vulnerabilità umana la troviamo nei pensatori della tradizione fenomenologica che ne fanno un sinonimo della nostra apertura al mondo, soprattutto Sartre (2013) e Lévinas (2016). Per Sartre la vulnerabilità è un dato primario della nostra percezione del mondo. La vulnerabilità è un nodo che viene stretto tra me e le cose. Le sporgenze del mondo e lo sguardo degli altri mi permettono di fare esperienza del mio corpo in quanto vulnerabile. La vulnerabilità di ciascuno è direttamente proporzionale alla capacità di sentire le cose e gli altri. Percepire, sentire, significa cogliere con lo sguardo l’ambiente nel quale siamo immersi, cioè cogliere gli sguardi che mi circondano. È lo sguardo degli altri e del mondo che fa prendere coscienza del mio corpo e delle mie possibilità di azione. Se cammino in una boscaglia e sento scricchiolare dei rami dietro di me, ciò che io sento è di avere un corpo che può essere ferito perché occupo uno spazio in cui sono senza difesa. Essere visti, subire lo sguardo altrui significa prendere notizia della propria vulnerabilità, entrare in contatto con un mondo che fa immediatamente segno al mio corpo come ciò che vi rimane esposto. Incontrare le cose e lo sguardo altrui significa esporsi al contatto efficace – al contagio – di ciò che ci circonda (Sartre, 2013).

Di solito, quanto più a lungo una società o un individuo sono rimasti preservati da ogni rischio, tanto più è concreta la possibilità che il minimo disturbo o inceppamento dell’ingranaggio abbia conseguenze catastrofiche. Un lucido analista di questa situazione è stato Jean Baudrillard, il quale ha mostrato in che modo l’inseguimento paranoide di una condizione di immunità assoluta – la negazione radicale della vulnerabilità – può mettere capo a una singolare eterogenesi dei fini. Baudrillard chiama ‘sbiancatura’ il tentativo di preservare il corpo sociale e individuale da tutti i pericoli e i danni che possono affliggerlo. Il progetto sociale di proteggere la nuda vita di ciascuno, salvaguardare l’esistenza biologica insieme alla sua moralità, rende gli esseri umani estremamente vulnerabili alla scienza e alla tecnologia, li espropria delle loro passioni rendendoli per ciò stesso vulnerabili nei confronti della psicologia e delle sue terapie e, una volta defraudati di tutte le emozioni pericolose e delle malattie, li rende estremamente vulnerabili alla medicina. La vulnerabilità ai pericoli diventa vulnerabilità alle prassi pubbliche e private di difesa e protezione. Tecnologie nate per immunizzare i viventi contro la loro vulnerabilità diventano tecnologie di controllo e igienizzazione del tessuto sociale che si rivelano rimedi peggiori del male. L’individuo immunizzato è come un uomo che ha perso la sua ombra, diventato trasparente a una luce che lo attraversa da tutte le parti, sovraesposto a tutte le fonti di luce. Ciò di cui queste società “luminose” e asettiche sono alla ricerca non è, in definitiva, la salute, che è un equilibrio organico ed effimero, sempre ai limiti della malattia e dello squilibrio, ma quello che Baudrillard definisce l’igienico splendore promozionale del corpo. L’‘illuminazione’ immunitaria dell’uomo è in realtà una sentenza di morte. Da questo punto di vista non è forse sbagliato pensare che lo sterminio dell’uomo inizi con lo sterminio dei germi dell’uomo. L’essere umano completo, con le sue emozioni, le passioni, le risate, il sesso e le secrezioni, è di per sé un virus irrazionale che con la sua esistenza rende opaco l’universo della trasparenza. Una volta però che è stato purificato e ripulito da tutte le infezioni, ciò che gli rimane è soltanto un mondo mortalmente pulito e mortalmente sofisticato dentro il quale il piacere dell’esistenza è rimpiazzato dal dovere della sopravvivenza (Baudrillard, 2006).

Siamo invitati in ogni modo a cercare protezione da ciò che può minacciare la nostra integrità. Questa mentalità profilattica si traduce socialmente in tutte le campagne organizzate dallo Stato e dalla società civile contro l’alcolismo, il consumo di droga, la velocità in autostrada, le ‘condotte a rischio’ contro le quali si interviene allo stesso modo di un medico curante. Lo scopo di queste azioni è liberare il campo da tutte le forze che appannano l’ideale immacolato di una funzionalità perfetta. Le tecnologie dell’immunità contro la vulnerabilità sono in ultima istanza tecnologie di disinfezione. Eradicare il male e la vulnerabilità dal mondo, rimuovendo ciò che ostacola l’operatività e l’efficienza, è lo scopo di tutte le tecnologie del controllo e immunitarie. Qualsiasi scarto o eccentricità dalle norme igieniche sembrano dover avere conseguenze catastrofiche. Come ha scritto efficacemente Susan Sontag, la nostra è un’epoca di estremismi nella quale viviamo sotto la minaccia continua di due prospettive egualmente spaventose, anche se apparentemente opposte: la banalità di un’esistenza assicurata contro ogni pericolo e il terrore per le catastrofi imminenti. In continuità con questa prospettiva, Judith Butler fa leva sull’idea pionieristica di performatività di genere per mostrare in che modo gli attentati a un’esistenza felice provengono dai codici e dalle istituzioni che dovrebbero metterci in salvo dalla nostra vulnerabilità naturale. C’è una violenza esplicita che si rivolge verso i corpi ‘anomali’, i corpi che non si adeguano alle categorie normative di sesso e genere e che per ciò stesso sembrano cadere al di fuori dell’umano, ad esempio i travestiti. E c’è una violenza implicita che coincide con la codificazione e la cattura dei corpi ‘normali’, quelli pronti ad adeguarsi. Rovesciando la prospettiva di Hobbes, Butler afferma che è vano cercare protezione nelle istituzioni dello Stato o del mercato, anzi, è proprio da queste ultime che dobbiamo proteggerci (Butler, 2013).

Il progetto di assicurazione totale dell’esistenza e d’immunizzazione nei confronti della nostra vulnerabilità ha un esito quanto meno contraddittorio. Massimo Cacciari individua in Alexis de Tocqueville il primo analista di questo stato di cose: l’homo democraticus moderno vuole condurre un’esistenza priva di incidenti, un’esistenza in cui il capitale di vita che gli è stato assegnato dalla nascita possa essere speso fino all’ultima goccia, senza incorrere in violenze, soprusi, sconfitte. L’individuo diventa intollerante nei confronti di ogni forma di dipendenza, rimane dogmaticamente certo della ‘naturale bontà’ dei propri desideri, ma è costantemente bisognoso di protezione, incapace di solitudine, pronto a richiedere difesa e protezione con la stessa incoercibile convinzione forza con cui rivendica la propria libertà individuale, sostanzialmente indifferente alla forma del regime politico capace di dargli tutte le garanzie di cui ha bisogno (Cacciari, 1996). I pericoli verso i quali necessariamente muove un desiderio di questo genere sono evidenti in quella che lo psichiatra americano Robert J. Lifton (2003) chiama superpower syndrome, la sindrome da superpotenza. Nessuna collettività o individuo possono eliminare totalmente il rischio e la vulnerabilità. Mantenere un’illusione di invulnerabilità spinge soltanto a compiere azioni sempre più radicali per sostenere quest’illusione.

In generale, il pensiero post-illuminista ha abbracciato una visione dell’operare umano che fa della vulnerabilità poco più che un inconveniente. La nostra crescita e l’arricchimento dell’esistenza diventano percorsi rettilinei che devono produrre autosufficienza, autocontrollo, indipendenza, capacità di decisione e la trascendenza razionale delle emozioni: la vulnerabilità è troppo compromessa con il corpo, la sofferenza è sempre immeritata, tutto ciò offende la fiducia strutturale che nutriamo nella autonomia della natura umana. In questo modo il pensiero moderno e contemporaneo si lasciano sfuggire parecchio di quella ‘condizione umana’ che pure si propone di indagare. Infatti, a differenza dell’autonomia, che deve essere prodotta e sostenuta con strumenti istituzionali, la vulnerabilità è una caratteristica fondamentale, ineliminabile e universale dell’esistenza: non possiamo fare a meno di esporci agli altri e in questa esposizione è contenuta tutta la nostra vulnerabilità (perché ogni esposizione, inevitabilmente, corre il rischio di essere misconosciuta e rifiutata). Se ci esponiamo agli altri, possiamo diventare oggetto di cura e riconoscimento ma anche di distruzione. Sottrarsi a questo rischio, però, significa rifiutare gli imprevisti dell’incontro, rinunciare a ogni possibilità di avventura senza la quale l’esperienza formativa non può che ridursi alla riproposizione di modelli esistenziali già collaudati e calcificati.

Baudrillard, J. (2006). Il Patto di lucidità o l’intelligenza del Male. Cortina.

Butler, J. (2013). Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, Laterza.

Cacciari, M. (1996). L’invenzione dell’individuo. Micromega. Almanacco di Filosofia.

Douglas, M. (2003). Purezza e pericolo. Un’analisi dei concetti di contaminazione e tabù. Il Mulino.

Machiavelli, N. (1984). Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio. Rizzoli.

Hobbes, T. (1991). Leviatano. La Nuova Italia.

Levinas, E. (2016). Totalità e infinito. Jaca Book.

Lifton, R.J. (2003). Superpower Syndrome. America’s Apocalyptic Confrontation With the World, Nation Books.

Sartre, J.P. (2013). L’essere e il nulla. Il Saggiatore, Milano 2013.

Galanti M. A. (2007). Sofferenza psichica e pedagogia. Roma.

Galli N. (1984). Pedagogia dello sviluppo umano. La Scuola.

Mortari L. (2015). Filosofia della cura. Cortina.

Mozzanica C. M. (2005). Pedagogia della/e fragilità. La Scuola.

Pati L. (2016). Livelli di crescita. La Scuola.

Per citare questo testo:

Tuppini, T. (2020, 13 novembre). Vulnerabilità. In M. Milana & P. Perillo (Cur.) Progetto RE-SERVES: Costrutti chiave. https://sites.dsu.univr.it/re-serves/