1. ETIMOLOGIA
La marginalità è la condizione di chi occupa un luogo periferico rispetto a un altro luogo che viene individuato come il centro dello scenario su cui si sta ragionando. In latino il sostantivo maschile margo indica il bordo, l’orlo di uno spazio, e in questo è affine al tedesco Mark che significa termine, confine. Per alcuni margo proviene dalla radice indoeuropea mârg- che indica l’operazione di pulire, strisciare, dunque anche tracciare. È un tracciare linee e solchi di varia natura, quello a cui ci si riferisce in questo caso: il perimetro di una città, la cornice bianca intorno a un testo scritto. Dunque concludiamo questa breve disamina etimologica fissando una suggestione di carattere generale. L’azione di segnare i confini produce uno spazio con il suo centro e la sua periferia, individua un luogo centrale per differenza e magari per opposizione ad altri luoghi considerati marginali.
2. LA STORIA E LE PROMESSE DEL CONCETTO
In filosofia, ‘margine’, ‘marginalità’, non sono concetti di lungo corso. Sono anzi concetti di recentissima acquisizione. Si potrebbe osservare che ciò non avviene per caso e che proprio la circostanza di questa tardiva presa in carico è istruttiva.
Potremmo anzitutto fissare una premessa generalissima. La filosofia ha esordito, in età greca, puntando a definire l’essenziale dei fenomeni, le forme tipiche di cui la realtà sarebbe costituita. È un riassunto un po’ brutale dell’impresa filosofica di Platone, ma utile ad aprire una strada nella direzione che qui ci interessa. Il sapere filosofico voleva essere il sapere capace di dire l’essenza dei fenomeni, pur differenti nelle loro manifestazioni e affidati a vicende instabili e al limite inafferrabili.
È chiaro infatti che una prospettiva di questo genere svaluta tutto ciò che non è dell’ordine dell’essenziale, della forma, del tipo. Agli occhi di questa premessa in senso lato platonica, l’ampio regno dell’inessenziale non è che una distesa di fenomeni negativi. L’aggettivo va inteso anche letteralmente. L’esistenza di quei fenomeni resta affidata a termini privativi, viene immaginata come semplicemente residuale. Marginale è ciò che non è centrale, e nient’altro che questo. Il centro, l’essenza, diventa criterio, valore, e ciò che non è centrale, ciò che non è essenziale, resta fuori campo, non merita troppa attenzione, finisce per restare senza nome e senza cura.
È facile immaginare come questa visione, che nasce come un’ontologia, cioè come un’indagine che vuole scoprire la realtà ultima delle cose, si riverberi immediatamente in una quantità di direzioni più specifiche. Ne deriva, in perfetta coerenza, una riflessione etica, incentrata sul bene e sulla sua realizzazione individuale. Ne deriva una riflessione politica, sulla giustizia e sulla città giusta. Ne deriva un’estetica, che mette al cuore di una certa idea di bellezza e di operazione artistica l’ideale regolativo della forma, e rimuove ogni forma di eccesso, di instabilità, in una parola di marginalità.
È altrettanto o forse più significativo che questa visione filosofica migri, nel corso del tempo, trasferendosi ad ambiti anche lontani dalla filosofia, diventando nel corso dei secoli un quadro di riferimento generalissimo, entro cui tante altre discipline e tante altre pratiche concepiscono le loro procedure, i loro oggetti, i loro scopi. Questo “antimarginalismo” diventa un quadro giuridico, istituzionale, consuetudinario, nel quale l’Europa per due millenni seguita a riformulare, a meno di piccoli slittamenti successivi, ovviamente importanti ma impossibili a tematizzarsi in questa sede, ogni progetto sociale, politico, economico, pedagogico, eccetera.
Di nuovo, è facile immaginare quali possano essere state le conseguenze di questo cammino complessivo. Le vite storte, i cedimenti soggettivi, le singolarità che segnano ogni nostra esperienza diventano errori da correggere o dimenticare. Quelle figure antropologiche della marginalità, che sono state di volta in volta quelle dei barbari, dei folli, delle donne, dei bambini (Foucault, 1961) diventano le concretissime incarnazioni di quegli errori, e diventano l’oggetto di un intervento che oscilla tra la correzione e la dimenticanza. Come in ogni metafisica dell’identico, il dilagare delle difese immunitarie, il diffondersi dei meccanismi di tutela del centro, non fa che correre sempre più rapidamente verso quell’esito paradossale che è l’aggressione autoimmune. A ben vedere, ogni vita inizia ad apparire, in quanto tale, storta. Ogni manifestazione soggettiva rischia di sembrare, in quanto tale, una minaccia all’ordine costituito. Ogni singolarità finisce per sembrare, in quanto tale, bisognosa di preventiva eliminazione.
Jacques Derrida è il pensatore che più di ogni altro ha fatto dei margini e della marginalità un inaggirabile terreno di riflessione. Il testo esemplare, in questo senso, è Margini della filosofia (Derrida, 1997).
Diciamo terreno di riflessione, più che concetto, perché fare della marginalità un concetto avrebbe avuto risultati paradossali, avrebbe portato inavvertitamente a replicare il problema con cui ci si voleva misurare. Fare della marginalità una bandiera, un’identità, avrebbe significato fare della marginalità un centro, e rigettare ancora una volta altrove quella marginalità su cui si trattava di lavorare. Per questo, nel lavoro di Derrida, l’accesso alla marginalità non può essere che obliquo, indiretto, pieno di cautele e in un certo senso di delicatezze. Anche si rendono necessari a Derrida un’altra scrittura, un altro stile filosofico, un altro andamento, non orientato alla cattura concettuale della questione ma a una sorta di tangenza sempre imminente e sempre rinviata. Posizione etica anziché metafisica, questa che ne deriva, nel senso che questo genere di ricerca non può che dissolversi infine in uno stile, in un modo, in un “come”, rispetto ai quali la fretta di stringere tra le mani un “che cosa”, cioè una definizione, magari una soluzione, passano necessariamente in secondo piano.
Un secondo aspetto del lavoro di Derrida può essere utile ricordare qui. Sarebbe affrettato immaginare che la posta in gioco del lavoro derridiano sia una sorta di partito preso per la marginalità. Sarebbe fuorviante ricavare da questo percorso l’idea che l’opzione derridiana sia l’opzione per quella che potremmo chiamare ‘l’altra parte’, specie di mitico altrove situato al di là dei confini. Il suggerimento che ci viene da questo percorso ha piuttosto a che fare con l’esigenza di frequentare il confine, con l’invito a maneggiare la linea che separa centro e periferia, a produrne variazioni, parziali smontaggi, parziali reinvenzioni. È come se, ogni volta che ci si ritrova davanti a una linea nettamente tracciata, quello che si tratta di fare è, molto più che saltare nell’al di là di quella linea, sostare sulla linea, provare a complicarla, studiarne gli anfratti segreti, scoprirne le lacune, sfruttarne i cedimenti, rilanciando quello che sembrava un destino di separatezza in una quotidiana pratica di ricomposizione, di ricombinazione, di riprogettazione. Nuovi transiti diventano possibili, non in nome dell’ideale dell’al di là, della marginalità, dell’ovvia bontà dell’altrove, ma in forza di un concreto e incessante rimaneggiamento del luogo in cui siamo.
3. LE AMBIGUITÀ DEL CONCETTO
La marginalità viene compresa di solito come una condizione di debolezza. Abbiamo visto che questo non è sempre vero, che la marginalità ha le sue risorse e una sua forza. Ma ha anche i suoi pericoli, che potremmo riassumere nell’espressione ‘marginalismo’.
Il marginalismo è il modo in cui i marginali o gli studiosi della marginalità rassicurano se stessi e gli altri circa la natura dell’esperienza che questa condizione comporta. Esiste il marginalismo dei migranti e dei tossicodipendenti, quello degli espropriati e degli intellettuali, dei criminali e dei malati, delle donne e dell’infanzia. Oltre a definire alcune scelte di vita molto precise, le molteplici forme del marginalismo condividono un’altrettanta precisa postura epistemica. Nutrono una pretesa alla verità. Chi guarda dai margini suppone di vedere meglio, di svelare qualcosa di nascosto, di togliere la maschera alla realtà. Realtà per esempio sociale, politica, economica.
Il rischio marginalista è dunque il rischio di limitarsi a rovesciare le gerarchie che solitamente valgono tra il centro e la periferia. Ma una volta rovesciate, quelle gerarchie continuano, evidentemente, a valere. Si continua a supporre che il centro sia il centro e che la periferia sia la periferia, e che in generale un centro esista davvero e una periferia esista in maniera altrettanto indubitabile. Resta immutata, in altri termini, una comprensione fortemente polarizzata della realtà. La propria differenza, la propria marginalità diventano un nuovo centro, una nuova identità, capaci di dire la verità su se stessa e sul resto del paesaggio. Come afferma Gilles Deleuze: tutto diventa fin troppo perspicuo, come al microscopio. Ci illudiamo di avere compreso tutto e di poter tirarne le conclusioni. Siamo dei nuovi cavalieri e abbiamo una missione (Deleuze, 2017).
Il primo manifestarsi di questa nuova logica della certezza è il rinchiudersi dei gruppi marginali su se stessi e la riproduzione al loro interno degli stessi affetti e comportamenti che intendevano denunciare nelle formazioni sociali ‘dominanti’. Un esempio semplicissimo lo possiamo trarre dall’ambito delle abitudini sessuali più consolidate. Il legame borghese di coppia viene rimpiazzato dal marginalista con un regime di scambio. Talvolta un codice maschile viene sostituito da un codice femminile. Ma in questo modo si produce una compensazione meccanica e una dinamica puramente consolatoria. Scelte sessuali non convenzionali diventano un’icona identitaria.
Il rigido controllo dei confini e la rinuncia ai legami sociali esterni sono tra le scelte necessarie per le comunità alternative di durata più o meno lunga. Bruno Bettelheim (1969) sottolinea nella sua analisi dei kibbutz israeliani l’importanza dell’isolamento per il mantenimento di stili di vita così difformi da quelli urbani. I kibbutz non potrebbero in alcun modo esistere dentro le città israeliane. Nella vita del gruppo non devono interferire i membri che non vi appartengono. Diventa a questo punto difficile distinguere una scelta di vita marginale da una semplicemente retriva. L’apparente rifiuto delle convenzioni che distinguono la classe media e inurbata diventa una resistenza alle rivoluzioni tecnologiche della modernità più avanzata.
È per questo che la vita in comune degli anni Sessanta e Settanta, a differenza del suo analogo nel diciannovesimo secolo, si è orientata verso la strutturazione di famiglie alternative piuttosto che società alternative. Dentro queste famiglie è comparsa quella che Deleuze definisce la ‘grande paura paranoica’. Cioè il timore per la propria immunità, la preoccupazione costante di non essere invulnerabili, la sensazione di essere esposti a una permanente possibilità di contagio. E così, i marginali si ritrovano catturati in una miriade di piccole monomanie. Attraverso la propria collocazione eccentrica sono sfuggiti all’apparato esterno di cattura e disciplina, ma il risultato paradossale è che il loro spazio pullula di voci e comandi, luci accecanti che assegnano a chiunque la sua missione di giudice, vigilante, ducetto di condominio o caseggiato (Deleuze, 2017). In altri termini, alla grande società funzionalizzata il marginalismo oppone le piccole comunità del sentimento. Qui ognuno può incarnare il proprio autentico sé, la propria moralità più profonda, il proprio ruolo. L’effetto tendenziale di questa deriva è quello di rendere insignificanti tutte le comunità reali che sono esistite e che ancora esistono. Ciò che viene perseguito vale infinitamente di più di ciò che è. Questo infinito perseguire, sospettare, epurare, finisce per portare alla paralisi, nel migliore dei casi. E a una sorta di fascismo a rovescio, nel peggiore.
Bibliografia minima
Bettelheim, B. (1969). I figli del sogno. Mondadori.
Deleuze, G. (2017). Mille piani. Orthotes.
Derrida, J. (1997). Margini della filosofia. Einaudi.
Foucault, M. (1963). Storia della follia nell’età classica. Rizzoli.
Letture consigliate
Barone, P. (2011). Pedagogia della marginalità e della devianza. Milano.
Izzo, D., Mannucci, A., Mancaniello, M. R. (2003). Manuale di pedagogia della marginalità e della devianza. ETS. 2003.
Perfetti, S. (2012). La marginalità, la differenza, la cura. Anicia.
Per citare questo testo:
Leoni, F., Tuppini, T., (2020, 13 novembre). Marginalità. In M. Milana & P. Perillo (Cur.) Progetto RE-SERVES: Costrutti chiave. https://sites.dsu.univr.it/re-serves/